È una storia che ha dell’incredibile quella vissuta sabato sera da Alessio M. e Caterina C., trentenni calabresi da anni trapiantati in Capitale.
Una serata come tante, una passeggiata pomeridiana in centro “per aprire la fame” e poi l’immancabile ricerca di un ristorantino dove cenare.
Qualcosa magari di carino ed economico, per giunta senza prenotazione, cosa meglio di un All you can eat magari a buffet?!
Era questa l’idea della coppia reggina: un bell’aperitivo con una bibita inclusa a 10 euro che unisse un bell’assortimento di pietanze ad un prezzo abbordabile.
Una formula che va forte nei locali di Roma, specie nelle zone universitarie. Un guadagno basato sui grandi numeri e su un ricco buffet fatto di tranci di pizza, teglie ricolme di pasta e rustici di tutti i tipi.
Rifornimenti in teoria infiniti, che però nella realtà non vanno mai oltre il secondo piatto riempito.
Per quasi tutti, di sicuro non per Alessio: 136 chili di cristiano ben distribuiti su 189 centimetri di altezza.
Il cosiddetto armadio a tre ante faccia buona e manazza che po esse piuma e po esse ferro.
Erano già pronti in tre a trattenerlo qualora avesse preso male quel rifiuto.
“Ragazzi, ci dispiace, in questo locale non accettiamo calabresi”.
Lo sguardo terrorizzato di Caterina che corre subito a cogliere l’espressione del compagno.
“Comu bellu? Chi sta ricendu chistu?”, la sua prima reazione interdetta.
“Abbiamo avuto brutte esperienze con i calabresi”, spiega Mario B., proprietario del locale e imprenditore con esperienza decennale nel campo della ristorazione. “Arrivavano a gruppi di cinque o sei persone e si mangiavano tutto. Noi proponiamo una formula economica, 10 euro a buffet, che alla fine conviene sia a noi che ai clienti. Guadagniamo sulle grandi quantità che sforniamo, cinque chili di pasta come lei mi insegna non costano molto, stesso dicasi per una decina di pizze. Solitamente la gente si ferma al secondo piatto riempito, alcuni arrivano al terzo, le ragazze poi si fermano anche al primo. Ma quando spuntavano i calabresi dovevamo chiudere tutto: si mangiavano pure i piedi del tavolo! Ci dispiace, ma con loro abbiamo chiuso. Lo avete visto poi quel marcantonio?!”
Peccato che il marcantonio in questione aveva già sollevato di peso i tre buttafuori e si era diretto accecato dalla fame verso la zona buffet.
“Staiu murendu i fami! Non mi rumpiti i cu*****!!”
E quindi sotto con il primo, il secondo, il terzo, il quarto e il quinto piatto.
Alessio, il ‘nimale di panza che improvvisamente si erge a paladino della lotta alle discriminazioni territoriali.
“Non volevamo turbare la tranquillità della clientela e il buon nome del locale” spiega oggi il ristoratore.
Incassa la sconfitta ed è pure costretto a chiedere scusa dopo le accuse di razzismo che gli sono piovute addosso specie sui social.
Una comunità molto solidale e combattiva, quella calabrese a Roma.
“Prepareremo un menù rinforzato per i calabresi, li omaggeremo con dei crostini alla ‘nduja e qualche nodo di salsiccia”, promette il proprietario del locale.
Alessio, come Rosa Parks e Malcom X, riempendosi la panza ha incassato una vittoria storica per tutti i suoi conterranei.
Perché è lui l’eroe che la comunità calabrese merita, e quello di cui ha bisogno adesso.