“Vogliamo fare la guerra in santa pace”, è questo uno dei più famosi slogan del softair.

Ragazzi che giocano a fare la guerra.

Tattiche militari, simulazioni di assalti a fortini e liberazioni di ostaggi. Ruba-bandiera con tanto di cecchini appostati sugli alberi e squadre d’assalto.

Uno sport che spazia dalle esercitazioni militari ufficiali al rafforzamento del team building in società private. Un’attività, fondamentalmente, ludico ricreativa.

Evidentemente non sempre, evidentemente non dappertutto.

Già perché in Calabria una pacifica partita di softair si è trasformata in una faida di ‘ndrangheta.

“Ti rissi chi non mi pigghiasti! Fidati!”

Sembrerebbe iniziato tutto così, dalla contestazione di una kill.

Ti ho preso, sei eliminato, sei morto. E invece no!

In quello che è un gioco essenzialmente di onestà, dichiararsi colpiti dall’avversario, viene a mancare l’elemento fiduciario.

Non il primo caso di un giocatore che bara, per orgoglio e voglia di continuare, non ammettere di essere stato preso da un proiettile.

“Ti ‘mmazzai merda, tornatindi pa’ casa!” e in un attimo le mitragliette finte si trasformano in kalashnikov veri.

Questioni di onore, di prendere seriamente, come un lavoro, attività che in qualsiasi altra latitudine verrebbero vissute con il sorriso sulla bocca.

Come la partite di calcetto tra amici, le domeniche allo stadio, i giri in motorino, le prime file dei semafori, in Calabria tutto diventa competizione.

Questione genetica, di repressione sessuale o di mancanza di un lavoro in cui realizzarsi, non è chiaro.

Fatto sta che qualsiasi momento ludico viene vissuto con agonismo e garra charrua.

Ed è così per non dichiararsi morti in senso figurato, per non accettare una sconfitta sul campo da gioco, si passa alle vie di fatto. Alle pistolettate vere, per lavare l’onore.

Che sia la finale del torneo di estivo calcetto o una partita di softair, in Calabria viene tutto preso sul serio.

Tutto tranne le cose serie.